mercoledì 29 dicembre 2021

La rivalutazione degli artisti dimenticati

 


Il modo in cui i mutamenti del gusto in campo artistico, se da un lato sembrano configurarsi come l’estrinsecazione di una scelta strettamente personale, di fatto possono essere predisposti da circostanze esterne estranee alla nostra stessa volontà; persino nello spazio temporale di un singolo istante può avvenire che i gusti differiscano. Occorre tenere presente, scriveva Buchanan nel 1824, che esiste una moda per i pittori come per gli abiti o per qualsiasi altra cosa

lo costringono a prendere coscienza di un fenomeno peculiare: e cioè che quanto riveste per noi importanza assoluta, in passato può essere sembrato insignificante a persone che sappiamo essere state colte non meno di noi. È possibile che una futura generazione rimanga insensibile al cospetto di un Piero della Francesca o di un Vermeer? 

Si afferma che il tempo sia buon giudice. È un asserto che non possiamo confermare, né smentire; ma dalla posizione di vantaggio in cui oggi ci troviamo possiamo concludere che i due artisti insieme a tanti altri sono stati trascurati per un periodo di tempo assai più lungo di quello che ha visto il loro apprezzamento. D’altra parte, non ci è nemmeno dato di concludere che, una volta sottratto un pittore all’oblio, è impossibile scordarcene di nuovo. 

La relatività del concetto di gusto che emerge da uno studio del passato, è il quid che la quasi totalità dei grandi riscopritori si preoccupava di scansare; è per esempio, la consapevolezza di volersi impegnare deliberatamente nello smantellamento di un criterio globale che presiedeva al gusto ortodosso, a rendere così importante per Ruskin il tentativo di elaborarne uno nuovo. Per lui, come per la netta maggioranza degli scrittori, l’anarchia era pericolosa non meno dell’eresia. Tale anarchia, ossia la pronta disponibilità ad ammirare le opere d’arte appartenenti a ogni epoca e a ogni cultura, che ora alberga in noi, è giustamente stata salutata come una delle massime conquiste culturali registrate dal secolo appena concluso.

Tuttavia, data da quella stessa epoca il manifestarsi del fenomeno opposto: quello della rivalutazione. Nel corso del secolo XVIII, pittori nuovi (Teniers, Murrillo, ecc.) cominciarono a integrare i canoni di valutazione di ciò che poteva essere apprezzato dal cosiddetto uomo di gusto: figura in quel periodo della massima importanza. Sta di fatto che il gusto, per quanto capriccioso, è sempre connesso a valori estranei al gusto pure e semplice. Tutti i sistemi estetici, per blandi che siano i loro legami, appaiono sempre avvinti in modo inestricabile, da una serie di fattori di ordine religioso, politico, nazionalistico, economico, culturale, che formalmente sembrano correlati con l’arte in modo molto vago, ma che talvolta esigono perentoriamente di essere scompagnati prima ancora che la percezione di un mutamento diventi possibile. Artisti e mercanti, storici e prelati, uomini politici e collezionisti possono da un dato momento avere motivi di diversa natura per mutare ovvero imporre la gerarchia estetica dominante.



Le Brun e la riscoperta di Vermeer 

La prima volta che in un testo stampato si è fatto uso del termine “scoperte” risale al 1792, l’autore era Pierre le Brun, e il pittore alla cui riscoperta contribuì in misura determinante era l’allora virtualmente obliato Vermeer. Nato nel 1748, sotto Luigi XV, e morto nel 1813 durante il Primo Impero è stato l’ultimo e forse il più grande della nutrita schiera di mercanti e amatori d’arte prodotti dalla Francia nel secolo XVIII. Ci troviamo al cospetto non solo di un amatore d’arte, sagace e percettivo, ma altresì di un astutissimo mercante.

Occorre anzi sottolineare fin dall’inizio come il mercato d’arte svolga un ruolo nettamente superiore a quanto sia comunemente ammesso nelle mutazioni di gusto. Le Brun è stato il primo esperto a infrangere l’inveterata abitudine di tentare a ogni costo l’attribuzione del maggior numero possibile di quadri al nome clamoroso e definitivamente consacrato di un grande pittore, per porre invece l’accento sui valori della rarità e dell’inconsueto.

Lo scopo era quello di portare alla luce l’opera di pittori che fino a quel momento erano misconosciuti, ma più esattamente, la fatica di Le Brun s proponeva di abolire lo snobismo legato ai nomi, sostituendolo con ciò che di fatto era un’altra forma di snobismo, ossia quel fascino del nome ignoto destinato a offrire tanto agli storci quanto ai collezionisti la possibilità di coltivare un numero di ipotesi indefinito.

Tuttavia, se è vero che Le Brun è stato fra i primi intenditori d’arte a tentare deliberatamente la scoperta di lontani pittori dimenticati occorre sottolineare come lo spirito della sua iniziativa si discostasse radicalmente da quella di innumerevoli altri esploratori che in tutta Europa, nell’arco quantomeno di una generazione avevano inteso operare con lo stesso proposito. La caratteristica più singolare di Le Brun è da vedere nel fatto che il suo apprezzamento, nei casi più importanti e originali, si collocasse sempre entro l’alveo di un gusto generalmente accettabile e in senso lato, tale era la ragione che ne motivava l’insuccesso. 

Sebbene a Le Brun spetti un ruolo decisivo nella storia della valutazione critica della pittura, di cui fu un autentico pioniere, pure gli esiti immediati sortiti dalla sua volontà di promuovere lo studio e il culto di pittori sconosciuti quali Vermeer e molti altri furono di portata relativamente modesta. Le campagne belliche e le invasioni che fecero seguito alla Rivoluzione francese e sottrassero innumerevoli dipinti ai santuari cui il tempo li aveva consacrati, lungi dall’accelerare il processo di mete metamorfosi del gusto che era già in moto negli ultimi anni dell’ancien regime, contribuirono al contrario ad arrestarlo, o quantomeno a rallentarne il corso.



Il dominio artistico della Francia dell'800 

Per quasi un ventennio, a intervalli, la Francia esercita in pratica il suo dominio su tutta l’Italia, o quasi. Militari, artisti diplomatici delle più disparate opinioni politiche sciamarono per la penisola col preciso incarico di impadronirsi di capolavori a nome del grande museo centralizzato di Parigi, e indirettamente delle pinacoteche secondarie in via di allestimento delle principali città della provincia. Per quasi un ventennio, a intervalli, la Francia esercita in pratica il suo dominio su tutta l’Italia, o quasi. Militari, artisti diplomatici delle più disparate opinioni politiche sciamarono per la penisola col preciso incarico di impadronirsi di capolavori a nome del grande museo centralizzato di Parigi, e indirettamente delle pinacoteche secondarie in via di allestimento delle principali città della provincia.

Tuttavia il controllo esplicato dalle autorità era così efficiente, che ben poco di ciò che in base ai canoni di valutazione corrente era stato giudicato di cospicuo valore non raggiungeva la destinazione ufficiale a Parigi. Di norma il saccheggio delle collezioni e dei palazzi privati veniva drasticamente scoraggiato. Persino gli inglesi (il cui gusto era irriducibilmente legato alla vecchia scuola pittorica) non poterono disconoscere che le collezioni private italiane uscivano relativamente indenni dalle spoliazioni francesi, non senza precisare, al tempo stesso, che i capolavori pittorici venduti a Londra erano affluiti da Roma in conseguenza delle penalità pecuniarie imposte dai francesi all’aristocrazia.

Il fatto che in quel periodo i collezionisti privati francesi fossero ostacolati da mancanza di occasioni propizie più che da mutamenti intervenuti nel gusto torva piena conferma quando si dia una rapida occhiata agli affetti prodotti dalla spedizione di Spagna: effetti diametralmente opposti a quelli della campagna di Italia. I ripetuti tentativi di selezionare alcuni fra i dipinti di maggior pregio, di scuola sia spagnola sia straniera, appartenenti alla collezione reale ad altre raccolte di Madrid e di varie città per fregiarne il museo napoleonico furono contrastati da tattiche dilatorie, e altresì dal fatto che re Giuseppe, fratello di Napoleone, era incline a tenerli per se. Per contro privati di ogni genere, ma francesi più sovente che inglesi, riuscirono a procacciarsi opere inestimabili che potremmo definire di tipo convenzionale.no a procacciarsi opere inestimabili che potremmo definire di tipo convenzionale.

L’elenco dei privati che trassero vantaggio dalla campagna di Spagna è dei più lunghi. Per concludere, possiamo senz’altro affermare che in linea generale i clamorosi capovolgimenti avvenuti in Europa tra il 1793 e il 1815 incoraggiarono, ma soprattutto consentirono, l’acquisizione da parte degli inglesi e dei francesi – a livello pubblico o privato e comunque su larga scala - di opere pittoriche il cui prestigio era già consacrato da secoli di costante apprezzamento. L’incipiente interesse per l’arte antecedente o addirittura remota che con lenta ma costante progressione si era affermato nel decennio precedente la Rivoluzione, fu sommerso dall’improvvisa quanto inattesa disponibilità di tanti capolavori dalla fama ormai consacrata.



I collezionisti privati dell'800 

Intorno agli anni 1840 per la prima volta ci imbattiamo non solo in collezionisti o intenditori isolati, figure eccezionali che operano le loro scelte in rapporto a esperienze artistiche differenziate, ma altresì in un numero ingente di appassionati d’arte che in larga misura sembrano sottrarsi all’influsso determinante esercitato sui loro gusti personali, dai molteplici fattori esterni.

Fra tutte le dinastie aristocratiche mercantili che accumularono i loro tesori al tempo della Rivoluzione francese solamente i Baring- famiglia di banchieri - conservarono per parecchie generazioni un interesse sincero e spiccato per la pittura del periodo classico. Abbiamo innanzi tutto sir Francis fondatore del patrimonio di famiglia: necessitava di quadri coi quali arredare le varie residenze e finì col trovarsi proprietario di una raccolta di scelti olandesi. I suoi figli, Thomas e Alexander, attribuirono ai loro quadri ben atra importanza: il primogenito Thomas, al pari di non pochi suoi contemporanei appartenenti a ogni ceto sociale, svolgeva attività marginale di mercante d’arte e fu così che sconvolse gli appassionati inglesi di pittura quando nel 1814, meno di un anno dopo averla comprata, cedette all’erede al trono di Baviera la Madonna della Tenda di Raffaello, parimenti comprò molti quadri di scuola olandese che andarono ad aggiungersi alla collezione paterna, ma quello stesso anno li rivendette in blocco al principe reggente. 


Tuttavia compensò queste vendite con la prodigalità dei suoi acquisti di opere pittoriche italiane e spagnole. Quanto al fratello Alexander si diceva che in Inghilterra nessuno più di lui avesse speso somme così ingenti in quadri di pregio molti dei quali acquistati a loro volta attraverso Le Brun anche se in prevalenza di scuola olandese e fiamminga. Tuttavia è solo con la terza generazione di questa famiglia che ci imbattiamo nella figura di un collezionista dalle concezioni affatto ardite e indipendenti, Thomas Baring, figlio di Sir Thomas.


 Questo accorto banchiere di strepitosa ricchezza dedicò al culto delle arti gran parte della sua vita. Quando nel 1835 diede inizio alle sue acquisizioni, largo effetto ebbe su di lui la pressione esercitata dall’Art Journal e da gran parte della pubblica opinione votata a sostenere a ogni costo la causa della pittura inglese moderna; acquistò in blocco un centinaio di quadri provenienti da una delle più famosi collezioni private. 

Fu una delle ultime transazioni del genere espletate da un inglese. Due anni dopo Baring comprò, dopo congrua valutazione, quadri francesi, italiani e spagnoli che facevano parte della collezione paterna, morto di recente. Da allora e fino al 1871 non desistette dall’accrescere la propria collezione.

I suoi acquisti spaziavano in ogni campo, dal Seicento spagnolo ai primitivi olandesi. Divenne inoltre uno dei più sagaci raccoglitori inglesi Watteau. La mania collezionistica di tre generazioni dei Baring illustra con estrema eloquenza l’argomentazione posta in apertura. Fra il 1840 e il 1850, in Inghilterra come in Francia, il gusto era estremamente mutevole e ricettivo. A differenza di quanto era avvenuto nel passato il gusto non si basava sui principi di sistematica esclusione, al contrario era assai più aperto di quanto fosse mai stato sino allora o di quanto lo sarebbe stato sino a oltre un secolo più tardi. Negli anni successivi al 1850 la creazione di un Club del Collezionista che avrebbe conquistato rapida fama con la denominazione di Burlington Fine Arts Club e si sarebbe distinto nell’organizzazione di una nutrita serie di esposizioni, valse in certo qual modo a confermare formalmente questo nuovo stato di cose. Possiamo tuttavia arguire che tra queste élite di uomini e donne colti e facoltosi si andasse elaborando una nuova concezione del gusto che nelle menti più duttili e meno teoriche si basava su principi più ampi di ogni altro invalso in precedenza.

Erano questi gli anni in cui un eclettismo altamente deprecato presiedeva quale fattore guida all’estrinsecazione dell’espressione artistiche contemporanee. Pietro Selvatico veneratore dei puri trecentisti (Nazareni e Puristi italiani) ha dato copiose lodi al Tiepolo imbarocchito ma nel contempo sottolinea come nel suo atteggiamento non vi sia in realtà alcuna contraddizione.

Al pari dei leggiadri artisti trecenteschi l’estroso pittore di affreschi si distingueva per l’intesa espressività spirituale e schietta resa formale. Il fatto che ammiri ad un tempo Tiepolo e i Puristi, mostra che non c’è in lui nessun preconcetto partito di escludere o rinnegare qualsiasi sorta di merito sotto qualsivoglia sistema o scuola; parole queste, che avrebbero potuto essere assunte a manifesto dei molti amatori d’arte decisi a usare i propri occhi anziché ad affidarsi ai luoghi comuni. Sino ad anni ancora recenti l’arte veniva apprezzata o denigrata per categorie, un’intera scuola, un intero secolo, un’intera nazione, erano riabilitati, rifiutati, o ignorati in toto; era allora difficile guardare di punto in bianco a un singolo quadro con occhi nuovi sgombri da pregiudizi.



I mutamenti nell'Arte '800

I mutamenti di gusto interessano persone diverse, in tempi diversi, in modi diversi. Oggi l’accessibilità è un dato essenziale, ma di per se stesso non determinante. Gli affreschi di Piero della Francesca, le pale d’altare di van der Weiden sono stati visti, e ignorati, per secoli. I musei possono contribuire ad attirare l’attenzione su particolari opere d’arte, ma a loro volta sono in larga misura l’espressione e il prodotto delle forze che li generano. Nessuno per es., quanto meno fino al 1850, avrebbe potuto coltivare in una spiccata inclinazione per i primitivi italiani, o una predilezione per la pittura francese del Settecento, basandosi su ciò che aveva modo di osservare in qualsiasi museo di Inghilterra.

Per contro le esposizioni sono suscettibili di attirare maggiore attenzione. Il loro carattere di temporaneità e la pubblicità che irradiano, possono conferire loro cospicua portata. Per più di un secolo le sale d’asta avevano svolto molte funzioni attinenti alle mostre temporanee. Nondimeno, data solo dal 1815 la prima esposizione londinese, non permanente e non commerciale, di dipinti di antichi maestri di altre nazionalità: nel genere cioè che oggi ci è oltremodo familiare.

Sarebbero tuttavia trascorsi parecchi anni prima che a Londra maturasse un’ulteriore occasione di vedere altre opere appartenenti alla più antica scuola pittorica, sia pure con un’eccezione di notevole rilevanza. La presenza di dipinti originali in una collezione privata, in una chiesa, in un palazzo, in un museo o in un’esposizione temporanea, la loro distribuzione in base a criteri cronologici, di nazionalità o di puro capriccio, la loro appartenenza a un prelato, a un socialista, a uno studioso o un’esponente della nobiltà sono altrettanti fattori suscettibili di influire sull’effetto prodotto dai quadri stessi in misura più sensibile di quinto si ammetta.

L’influenza delle nuove tecniche di riproduzione e del linguaggio nella diffusione di opinioni nuove sull’arte e sugli artisti.

Tuttavia, fino a epoca recente, le occasioni di vedere le opere originali erano relativamente limitate, e la stragrande maggioranza della popolazione, ivi inclusi quanti avevano diretta e personale attinenza con l’arte, doveva accontentarsi delle riproduzioni e della parola scritta. Non è il caso di sottovalutare gli effetti esplicati, nella guida del gusto in senso lato, da queste due forme di comunicazione indiretta, e gli intenditori d’arte del secolo scorso ne erano perfettamente consapevoli. All’apparire di ogni nuova tecnica figurativa – dalla litografia alla xilografia, dall’incisione alla fotografia – il dibattito dei suoi meriti in rapporto alle atre si faceva più intenso e vibrante. Ma furono tuttavia le guide turistiche, più che le riviste e i periodici, a influire nella misura più avvertibile sulla visuale del pubblico.

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